Catechesi: costruire ad alta quota – Due giorni promossi dall’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi 

Costruire in alta quota”. Non si poteva scegliere titolo di miglior auspicio per questo tempo di “ripartenza” (o forse sarebbe meglio dire di “nuovo inizio”) della catechesi. Una suggestione, quella della costruzione “in alto”, che ben rappresenta e abbraccia la “due giorni” organizzata dall’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi e che ha conosciuto la ricchezza di molti stimoli laddove arte, riflessione teologica e biblica nonché momenti celebrativi, si sono succeduti dentro alla feconda dialettica tra il “dentro” del discernimento e il “fuori” dell’apertura al mondo che contraddistingue il cammino di Ninive 2021. In effetti, sebbene pensate come appuntamenti distinti, le due giornate – a cui hanno partecipato complessivamente più di duecento tra catechisti, animatori di pastorale familiare, giovani educatori, gruppi liturgici e missionari – hanno conosciuto una evidente continuità, richiamata da alcune parole chiave: «accettazione», «fragilità », «leggerezza» e «rinnovamento » “Stiamo vivendo un tempo di discernimento nel quale siamo chiamati a dare un nome a ciò che le nostre comunità hanno vissuto e, in qualche modo, stanno ancora vivendo”. Queste le parole di don Alberto Zanetti, direttore dell’ufficio per l’Annuncio e la Catechesi che hanno aperto la prima giornata. Una tappa in qualche modo storica, che, se si eccettua la ricorrenza del 50° del Biennio catechisti del 22 aprile scorso, ci auguriamo segni un nuovo tempo di incontri “in presenza”. Per cogliere appieno la sfida di questo nuovo inizio che non può prescindere dal considerare l’Iniziazione cristiana un compito che coinvolge l’intera pastorale e, dunque, l’intera comunità cristiana, come segno dell’apertura al dialogo con il mondo, ci si è inizialmente affidati alla testimonianza dell’architetto Simone Gobbo, responsabile della progettazione “in alta quota” del Bivacco Fanton (2667 mt) sulla Forcella Marmarole. Nella sua narrazione sono emersi spunti che, sebbene afferenti alla sua esperienza professionale, sono risultati assai significativi per l’analogia con le sfide pastorali che abbiamo di fronte come, ad esempio, il fatto che tutto sia iniziato nel 2014 partendo da un fallimento: nel 1967 la prima installazione del bivacco non andò a buon fine.

Leggerezza fondata sulla roccia

La nuova progettazione non è nata dal nulla, ma ha preso le mosse dai problemi evidenziati nella prima e ha richiesto la pazienza di ben cinque anni di lavoro a cui se ne sono aggiunti altri due di realizzazione. Il tutto ha preso spunto dalla decisione di accettare le condizioni ambientali (l’inclinazione del sito, il vuoto dell’alta quota, la consapevolezza della fragilità della costruzione rispetto alla potenza del contesto ambientale) senza per questo modificare il paesaggio ma, al contrario, affrontandone le sfide, trovandosi così, nella necessità, a riscrivere i codici sui quali, per anni, si è fondata l’architettura. Da qui la scelta della “sospensione” del bivacco, progettandolo senza un suo diretto contatto col suolo, optando sì per una “leggerezza” ma, comunque, fondata sulla roccia. Tutto ciò è stato possibile perché, come ha puntualizzato Gobbo, “si è «rubato» da altri mondi” (come, ad esempio, l’ingegneria nautica) sollecitando un “lavoro di comunità”. Le provocazioni alla pastorale lanciate dall’esperienza di Gobbo sono state raccolte da don Alberto che ha sottolineato come la crisi che stiamo vivendo debba essere vista sia come uno stimolo per rinnovarci, ma anche occasione per interrogarci su ciò che è stato costruito prima di noi: è tutto da lasciare o c’è qualcosa che, invece, va tenuto e valorizzato? Così come va colta la suggestione dell’alta quota che fa pensare a una evangelizzazione che va ancorata sulla «Roccia» che porta a chiederci: l’Iniziazione cristiana va vista solo in funzione dei sacramenti o va anche intesa come “elevazione” dell’umano? Non di meno va sottovalutato il richiamo all’adattamento all’ambiente che va ritradotto in “ascolto” e “rispetto” delle persone che nel nostro cammino incontriamo. D’altro canto le varie fasi nelle quali il progetto si è articolato ci suggeriscono pazienza e gradualità.

Una comunità missionaria a servizio dell’annuncio

La seconda parte della giornata ha visto l’intervento del Centro Missionario diocesano che, secondo lo spirito di Ninive 2021 e come è già avvenuto il 4 giugno con l’apporto dell’Ufficio Liturgico, ha contribuito ad allargare la sinergia della catechesi con l’intera pastorale. “Una comunità missionaria a servizio dell’annuncio”, il tema sviluppato dai quattro relatori coordinati dal direttore dell’ufficio, don Gianfranco Pegoraro, che ha tracciato un netto parallelismo tra “rinnovamento missionario” e necessità di una consapevolezza della complessità dell’attuale contesto culturale, il che implica pazienza e accoglienza. Richiamandosi ad Evangelii Gaudium 27, don Gianfranco ha sottolineato la necessità di una pastorale che, secondo lo spirito missionario, sappia trasformarsi accettando e ripensando “gli orari”, vale a dire l’ordine e la gerarchia delle cose. Tali aspetti sono stati ulteriormente declinati negli interventi successivi: la necessità di “imparare la lingua”, ossia entrare in empatia con l’altro (don Giovanni Kirschner), la situazione del catecumenato in Ciad (don Mauro Fedato). Poi è stata la volta di Mirella Zanon che ha raccontato la sua esperienza in Russia con la comunità Giovanni XXIII, e, infine, della cooperatrice pastorale Germana Gallina che ha dato conto del suo vissuto in Paraguay con gli animatori laici di comunità. Se il 17 settembre con il suo carico di riflessioni e stimoli è stato il giorno del “dentro”, quello successivo, intriso del linguaggio della “bellezza”, con la celebrazione del Mandato ai catechisti a San Nicolò ha segnato quello del “fuori”.

Tre immagini per questo tempo

Bella, a tratti poetica, è stata la narrazione ad opera di Marco Sartorello di un testo di fr. Enzo Biemmi sulle sfide lanciate alla Chiesa dalla pandemia, nel quale il catecheta si è soffermato su tre immagini: la piazza «vuota» di san Pietro ha richiamato la necessità di imparare a custodire i vuoti per poter permettere al bene di fiorire; la «bassa marea» che, facendo emergere le sporcizie del fondo ci dà modo di fare pulizia e, infine, «la bara del rabbino» legata all’esperienza storica di Jochanan ben Zakkaj che, fingendosi morto, poté uscire in una bara dall’assedio dei romani nel 68 d.C. a Gerusalemme portando con sé la Torah, e diede la possibilità al giudaismo di rifondarsi come popolo della Torah: un popolo senza terra, senza re, senza tempio ma fondato sulla Parola. In questo modo, secondo Biemmi, siamo provocati ad “alleggerirci” cioè a riandare a ciò che, per la fede della Chiesa, è essenziale. Negli 8 laboratori, decentrati in altrettante chiese di Treviso e animati da 16 guide sotto la supervisione di don Antonio Scattolini ed Ester Brunet del progetto pastorale Ar- Theò di Verona, si è riflettuto sulle ferite e sulla possibilità di cura a cui questo tempo ci ha messo di fronte. Il ritorno a San Nicolò ha coinciso con la bella riflessione sulle ferite dell’umanità che, partendo da «Il clown ferito» opera di Georges Rouault, don Antonio ed Ester hanno offerto ai presenti e poi con l’intensa cerimonia del Mandato presieduta da mons. Mario Salviato. Il Vicario episcopale per il Coordinamento della Pastorale,, partendo da Ef 4,1-11 nonché richiamando le parole di papa Francesco, ha invitato i catechisti a rimanere in Colui che è la sorgente della nostra vita e, così, abbattendo qualsiasi muro di separazione, divenire veri artigiani e generatori di comunità. Dimorare in Cristo, ecco cosa significa “Costruire in alta quota”! (Vincenzo Giorgio)

 

(tratto da La Vita del popolo di domenica 26 settembre 2021)