Trevisani nel mondo compie cinquant’anni

Diocesi di Treviso
Una “esperienza di bellezza”: questo è stato domenica sera, 26 settembre, l’appuntamento con la cultura e la spiritualità nella Chiesa di San Francesco, a Treviso. Una serata dedicata a Dante Alighieri e a San Francesco d’Assisi, promossa nell’ambito di “Chiese aperte per Dante” a 700 anni dalla norte del grande poeta. Il giorno prima, sabato, c’è stato il successo delle letture dantesche tra musica (grazie al Conservatorio “Steffani” di Castelfranco Veneto) e arte a cura dei volontari di “Chiese aperte – Treviso”, che si sono svolte in cinque tra le più belle chiese cittadine, con la partecipazione di una cinquantina di persone ad ogni appuntamento. La domenica, poi, la lettura del “canto di Francesco” tratto dal canto XI del Paradiso. Dopo il saluto di don Paolo Barbisan, direttore dell’ufficio diocesano per i Beni culturali, l’introduzione alla serata dell’attore Davide Stefanato e la lettura del canto curata dall’attore Jgor Barbazza. A punteggiare la serata gli interventi di Kalicantus ensemble diretto dal maestro Stefano Trevisi, che ha illustrato ai presenti il percorso e il significato delle scelte musicali.
Il commento spirituale al canto XI del Paradiso era affidato al vescovo, Michele Tomasi, che non ha nascosto la sua commozione per essere tornato a parlare in pubblico dopo oltre tre mesi dal suo incidente.
Mons. Tomasi ha sottolineato la doppia “identità” di Dante, poeta e teologo, mettendo in luce l’unitarietà dei due aspetti, perché “bellezza e verità, ragione e sentimento, cielo e terra” non dovrebbero essere separati tra loro, perché “le separazioni feriscono il reale, e impediscono di vivere la vita come un cammino”.
Quel cammino – pellegrinaggio dell’esistenza che è il grande tema della Commedia dantesca, come “ricerca di ciò cui aspira il desiderio dell’uomo, ricerca della felicità”.
“Il poeta ci fa volare alto ma non ci rapisce lontano dalla nostra realtà. Egli ci dice, in fondo, che se gli umani non volano alto essi non volano affatto, si impantanano in cose vuote e alla fine sbattono a terra, rovinosamente. Per non “battere in basso l’ali” dobbiamo cercare sempre e comunque la prospettiva, le ragioni, l’evidenza e i sentimenti dell’amore. Quello pieno, definitivo, incondizionato. L’amore di Dio. L’amore che è Dio. L’amore di cui siamo impastati, grazie al quale e in vista del quale noi esistiamo” ha ricordato il Vescovo.
Mons. Tomasi ha tratteggiato la figura del santo di Assisi mettendo in luce la storia d’amore tra Francesco e Madonna Povertà. Povertà che è uno stile di vita per Francesco, a imitazione di Cristo. “Nei secoli intercorsi tra i due non si presentò nessuno che volesse in sposa la povertà. Nessuno riuscì ad imitare pienamente Cristo”. Un romanzo d’amore, quello di Francesco con la povertà, vissuto per amore del Signore, una vita che diventa attraente per altri, i suoi frati prima di tutto, in una corsa a imitare Francesco: “Nel bene possiamo gareggiare e vincere tutti, vincere insieme” ha ricordato il Vescovo.
Nella povertà Francesco dimostra la sua regalità. “Ecco il paradosso grande della legge della croce, il contenuto più profondo della sua «imitazione di Cristo» – ha ricordato mons. Tomasi – fino a ricevere le stimmate, i segni “crudi e gloriosi” della passione di Cristo. “Giunto ormai al cospetto di “sora nostra morte corporale” Francesco può, lui assolutamente povero, lasciare ai suoi l’eredità più ricca, Madonna povertà. Ancora una volta il paradosso della croce, il paradosso dell’amore”.
“Dante ha visto anche questo in San Francesco – ha concluso il Vescovo -, anche questo egli ha donato all’umanità con la sua penetrazione psicologica, il suo sguardo di fede, la sua poesia. E questo egli rilancia e consegna alla nostra vita, alla relazione con tutte le creature, ad ogni momento della nostra esistenza”.
Il commento spirituale del Vescovo al canto XI del Paradiso
Oltre 1.500 persone si sono ritrovate lunedì 14 ottobre insieme al vescovo Tomasi per l’apertura del nuovo anno pastorale diocesano. Il Vescovo ha invitato a vivere alcune particolari virtù, in una sinodalità che ci coinvolge tutti come “santo popolo di Dio in cammino”.
“Il Cammino Sinodale ha messo in moto molti processi – ha ricordato mons. Tomasi – ha coinvolto molte persone, e questo sta portando frutti”. Un coinvolgimento, hanno annunciato il Vescovo e mons. Salviato,
che si allargherà ulteriormente, nelle Collaborazioni e nelle parrocchie, a tutti gli operatori pastorali.
Pubblichiamo l’intervento del Vescovo:
agenzia fotofilm treviso apertura anno pastorale a san nicolò
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“Questa sera, per questo mio primo intervento in occasione dell’apertura dell’anno pastorale, intendo farmi guidare da un passaggio della seconda lettera di Pietro che abbiamo appena ascoltato. La Parola sia lampada ai nostri passi, luce sul nostro cammino.
Il testo ci dice:
“Per questo mettete ogni impegno per aggiungere
alla vostra fede la virtù,
alla virtù la conoscenza,
alla conoscenza la temperanza,
alla temperanza la pazienza,
alla pazienza la pietà,
alla pietà l’amore fraterno,
all’amore fraterno la carità.
Questi doni, presenti in voi e fatti crescere, non vi lasceranno inoperosi e senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo”. (2 Pietro 5,8)
Partiamo dalla fede, dal nostro affidamento al Signore Gesù, e “rimettiamo ancora una volta a fuoco la persona di Gesù e l’incontro con lui.” (Gianfranco Agostino Gardin, Per una Chiesa in cammino. Lettera pastorale, Treviso, 2018)
Il testo prosegue: Per questo mettete ogni impegno (cura) per aggiungere
…alla vostra fede la virtù…
L’etica della – o delle – virtù è una risposta adeguata e credo anche necessaria alle esigenze del nostro tempo; non tanto per costruire sistemi normativi dettagliati che possano permetterci di affrontare ogni situazione con indicazioni chiare e distinte, ma piuttosto per la formazione di persone che siano esse stesse soggetti e principi di vita buona, attori della vita comunitaria – ma anche sociale politica ed economica – capaci di “lasciar emergere tutte le conseguenze dell’incontro con Gesù nelle relazioni con il mondo che li circonda” (LS, 217). A partire dalla fede, annunciata, trasmessa, celebrata, vissuta, le nostre comunità si manifestano sempre di più come quel “santo popolo fedele di Dio” di cui il Concilio Vaticano II ha tratteggiato gli elementi costitutivi e che papa Francesco mette al centro del suo messaggio e della sua azione. Insieme le persone si mettono in cammino, insieme si prendono cura gli uni degli altri, per accompagnarsi, sostenersi, consolarsi in questo cammino di crescita e di sevizio, alla Chiesa e a tutta la società. Insieme responsabili del bene donato dall’incontro personale e comunitario con il Signore Gesù siamo in cammino per donare a nostra volta il bene che abbiamo ricevuto e che fonda la nostra stessa esistenza.
…alla virtù la conoscenza…
Questo percorso virtuoso rimane però velleitario se non ci attrezziamo a mediare con strumenti conoscitivi semplici ma adeguati tra i contenuti e l’esperienza comunitaria della fede e le situazioni della storia che ci troviamo a vivere, che sono spesso complesse, non di rado contraddittorie, e che sempre richiedono risposte appassionate, sì, ma soprattutto competenti. Il cammino sinodale ha messo in evidenza il metodo ecclesiale del vedere – giudicare – agire: ricordo per la sua sapiente applicazione che più che di un metodo si tratta di un atteggiamento di fondo, le cui dimensioni fondamentali sono l’attenzione ai dati che si presentano alla nostra attenzione, e che dobbiamo essere capaci di cogliere; l’intelligente ricerca dei nessi e delle relazioni possibili tra eventi, spesso così differenti e apparentemente distanti tra loro da renderne difficile la scoperta; il giudizio sulla validità delle ipotesi di spiegazione raggiunte, che possono essere anche molteplici: dobbiamo accettare la fatica di confrontarci sulle differenti soluzioni proposte, per convergere su quelle che più di tutte si dimostrano adeguate a far presa sulla realtà; l’agire responsabile a partire da ciò che abbiamo riconosciuto insieme come valido e vero, adeguato ed opportuno.
…alla conoscenza la temperanza…
La sapienza anche solo provvisoriamente raggiunta nel processo di discernimento personale e comunitario passa poi per la temperanza, virtù cardinale che permette di godere dei beni ricevuti, di ogni tipo, sena che questo conduca a un uso smodato delle risorse, ad una relazione di sfruttamento nei confronti delle cose e soprattutto delle persone, ma invece ad una generale sobrietà nelle relazioni che rende significativi e belli tutti i rapporti, feconda la attività pastorale, gioiosa la testimonianza della fede.
…alla temperanza la pazienza…
È questo un atteggiamento molto importante: la pazienza! Che è la capacità di stare nelle situazioni, di non rifugiarsi in un altrove che magari si desidera, ma che non esiste, se non in alcune teorie. È anche l’attesa speranzosa, quella che sa vedere pur nelle difficoltà il molto bene seminato e che sta già germogliando, nella logica che nel Signore innalzato sulla croce ci fa guardare in alto, spinti dalla potenza del Risorto glorificato proprio su quella croce. Non rassegnazione dunque, ma accettazione del presente in cui già traspare la forza di novità donata dal Signore Gesù. Il cammino sinodale ha messo in moto processi, ha coinvolto molte persone, sta portando frutto: se accettiamo di non volere tutto subito e continuiamo a coinvolgere sempre più persone in questa conversione pastorale vedremo i frutti giungere a maturazione.
È pazienza che vi chiedo anche nei miei confronti: non sono in grado, lo capite bene, di dare indicazioni programmatiche, di esprimere valutazioni su direzioni certe che il cammino della nostra chiesa dovrebbe intraprendere. Dopo una settimana appena – e che settimana! – sarei stolto a pensare qualcosa del genere.
La sinodalità del nostro cammino di Chiesa è meta e strumento al tempo stesso – questo lo posso però dire – e deve essere punto di non ritorno. Non tanto e non certo per quanto riguarda le strutture sinodali – che continueranno fintantoché saranno aiuto e sostegno per rinnovare le forme della collaborazione ordinaria a tutti i livelli – quanto piuttosto nel camminare insieme come santo popolo fedele di Dio, in un atteggiamento di ascolto, di dialogo, di condivisione, consapevoli che in questo continueranno ad esserci guida i principi che papa Francesco dona alla Chiesa nella Evangelii Gaudium: “Il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte (EG, 221-237).
…alla pazienza la pietà…
In questo cammino scopriremo quali forme concrete dovrà assumere proprio la pietà, ovvero il giusto rapporto con Dio e degli uomini e delle donne del nostro tempo tra loro, in “quell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” di cui la Chiesa, secondo la Costituzione Lumen Gentium, è “in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento” (LG, 1). Assumendo il passo gli uni degli altri – pazienti i più veloci, solleciti i più lenti – ci verrà donato di vedere il bene già presente, di desiderare e di compiere il bene possibile ed ancora da realizzare, nell’orizzonte non solo delle singole comunità, ma dell’umanità intera. La pietà è anche fondata sulla compassione, sulla capacità umana di lasciarsi ferire dal destino, dalle sofferenze, dai bisogni di tutti i nostri compagni di viaggio, e di far spazio al grido dei poveri e della terra.
…alla pietà l’amore fraterno…
Sapremo allora aggiungere la dimensione della fraternità, il dono che la paternità universale di Dio ci fa’ di essere e di coglierci come fratelli ed amici e di ricostruire quotidianamente i vincoli che ci uniscono, nella comunità cristiana, a servizio di quell’amicizia civile che il Compendio della dottrina sociale della Chiesa ci consegna come il campo “del disinteresse, del distacco dai beni materiali, della loro donazione, della disponibilità interiore alle esigenze dell’altro” (CDSC, 390).
…all’amore fraterno la carità…
E a questo punto scopriremo che all’opera non sono le nostre capacità, i nostri piani, i nostri progetti, che non inseguiamo una costruzione fatta a tavolino, non lo sforzo di persone anche animate da buona volontà e buoni sentimenti, ma l’amore di Dio, l’agape, Dio stesso.
Ricordo in proposito le parole di papa Benedetto, nell’enciclica Deus Caritas est: “«Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4, 16). Queste parole della Prima Lettera di Giovanni esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino. Inoltre, in questo stesso versetto, Giovanni ci offre per così dire una formula sintetica dell’esistenza cristiana: «Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto».”
La Parola ci ha condotti, dunque dalla fede all’amore, facendoci passare attraverso tutta l’esperienza passata, presente e futura della Chiesa di Dio che è in Treviso. Potremmo fare anche il percorso inverso, dall’amore alla fede, e in mezzo sempre noi. Ciascuno, ciascuno, i singoli, ogni comunità, ogni parrocchia, ogni collaborazione, ogni vicariato; gli ordini religiosi, gli istituti di vita consacrata, le associazioni, i movimenti, tutti siamo racchiusi in questa dinamica di uscita da noi stessi, dalle nostre abitudini e dalle nostre paure, ciascuno con la sua specificità, tutti insieme come popolo in cammino. In cammino, appunto. La sinodalità del cammino sarà questa esperienza che non inizia ora, che coinvolgerà sempre più persone e realtà, che ci farà sperimentare fatiche, certo, ma anche la gioia di annunciare e vivere il Vangelo in questo nostro mondo.
La lettera che il Consiglio pastorale ci consegnerà stasera è il segno, che spero eloquente ed accolto, che il cammino continua, che la scelta chiave fatta dal cammino sinodale della “valorizzazione dei consigli pastorali” rimane indicazione di fondo che ci guiderà, anche nel cammino di realizzazione e concretizzazione delle tre scelte su cui tutti state lavorando, con impegno e competenza.
Da parte mia pongo un altro segno di impegno, di continuità e di fiducia. Sono convinto che il dono grande che ricevo nell’essere chiamato pastore della Chiesa di Treviso sia il grande patrimonio di uomini e di donne che con passione, competenza, dedizione e impegno sono in cammino. Sono grato al Vescovo padre Agostino per aver sognato, pensato ed avviato questo processo e sono grato a tutti coloro che lui ha chiamato a collaborare nel pensare ed accompagnare questo cammino. Prego tutti voi di continuare su questo percorso.
Per questo confermo il Consiglio presbiterale e il Consiglio pastorale diocesano fino alla scadenza naturale del loro mandato, e in particolare don Adriano Cevolotto come Vicario generale e don Mario Salviato come Vicario episcopale per la pastorale. Ringrazio tutti i collaboratori a tutti i livelli, per il loro prezioso e competente aiuto.
Carissimi, vi ringrazio per la disponibilità a questo non facile servizio: la Scrittura ci assicura: “Questi doni, presenti in voi e fatti crescere, non vi lasceranno inoperosi e senza frutto per la conoscenza del Signore nostro Gesù Cristo”.
Alla cerimonia religiosa nella solennità di san Liberale, patrono della città e della diocesi di Treviso, sabato 27 aprile, erano presenti numerosi fedeli e autorità civili e militari, tra le quali il sindaco di Treviso, Mario Conte, e il prefetto Maria Rosaria Laganà. A presiedere la celebrazione il vescovo di Treviso, mons. Gianfranco Agostino Gardin che, nell’omelia, ha messo in luce la singolarità di san Liberale: Se confrontato con le diocesi trivenete, “san Liberale costituisce l’unico caso di un patrono di diocesi che non è né vescovo, né martire. E’ un cristiano laico. Non dispiace questa singolarità del nostro patrono, pensando che nella Chiesa si sta riconoscendo con maggior attenzione, sulla spinta del Concilio Vaticano II, la dignità e la corresponsabilità dei fedeli laici”. I motivi per cui fu scelto quale patrono furono, probabilmente, ha aggiunto il Vescovo, “la sua fede cristallina, la sua coerenza di vita, la sua generosità e dedizione nel farsi divulgatore del Vangelo e amico dei poveri. Non va dimenticata poi la sua tenacia e il suo coraggio nel difendere la purezza della fede cristiana in un momento in cui l’eresia ariana – che negava la divinità di Gesù – si stava diffondendo, creando divisioni e disorientando i cristiani”. Egli – ha proseguito mons. Gardin – ci aiuta a ricordare “che la nostra è davvero «fede dei padri», fede frutto di lunga traditio. E ogni generazione ha dato il proprio apporto alla fede ricevuta dai padri (più realisticamente dalle madri), arricchendola della propria esperienza, della propria capacità di renderla vita vissuta”. E, “pur nello scorrere della storia della Chiesa” alcune caratteristiche sono rimaste e sono evidenti nelle letture scelte per la celebrazione. “La prima lettura, dagli Atti degli Apostoli (At 16,25-34), ci pone di fronte alla fatica dell’evangelizzazione, primo e irrinunciabile compito della Chiesa”, da svolgere nonostante le tante prove che si devono affrontare. “L’annuncio del vangelo – ha spiegato il Vescovo – oggi, soprattutto nella nostra cultura occidentale, deve fare i conti con letture distorte del messaggio cristiano, indifferenza, precomprensioni ideologiche, tentativi di strumentalizzare la fede a scopi politici, mentalità che difficilmente si riconosce nei contenuti portanti del cristianesimo. Certo, si aggiunge anche la fragilità e la coerenza non sempre cristallina degli stessi cristiani. Paolo osservava che l’apostolo porta «un tesoro in vasi di creta» (2Cor 4,7); il tesoro, che è il vangelo, è dunque affidato alla fragilità dei cristiani”.
Nella seconda lettura l’insistenza di Giovanni nell’affermare la divinità di Gesù (1Gv 5,1.4-5.13.20-21), richiama “l’impegno concreto di San Liberale nel difendere la divinità di fronte all’eresia. Si tratta di quella verità che sta e starà sempre al cuore della fede: Gesù Cristo, Figlio di Dio venuto tra noi, è l’unico vero rivelatore del Padre, è l’alfa e l’omega dell’esperienza cristiana”. “Ridurlo a un contenitore di valori, certo positivi, ma magari indebitamente selezionati in funzione di ideologie sociali o politiche” significa portare il cristianesimo fuori strada.
Infine l’apostolo Tommaso (Gv 20,24-31), “ci rimanda alla fatica del credere”. “Credere senza constatare è atto impegnativo”. “Non dimentichiamo che è difficile dare fiducia a chi non si conosce, a chi non si è veramente incontrato”.
San Liberale, laico cristiano, è stato l’augurio conclusivo del vescovo Gardin, “sostenga il cammino di solidarietà, di pace, di sano benessere delle donne e degli uomini di questa città e di questa Chiesa trevigiana”.
agenzia fotofilm treviso messa patrono san liberale in cattedrale
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Carissimi fratelli e sorelle della Chiesa di Treviso,
ancora una volta ci è dato di vivere l’inestimabile dono della Pasqua. Pensando ad essa ci sorge forse la domanda: perché Gesù ha voluto che la sua risurrezione, diversamente dalla sua morte in croce, avvenisse non davanti a numerose persone, ma senza che nessuno potesse assistere a tale evento? Non sarebbe stato tutto più evidente e dunque più semplice anche per noi e per la nostra fede? Invece, nemmeno un testimone, nemmeno un piccolo bagliore nella notte scorto da lontano, e neppure, ci pare, un sia pur tenue presentimento nell’animo di chi gli voleva bene. Solo una tomba spalancata e vuota, che lascia sorpresi, anzi increduli, addirittura impauriti. Nel racconto di Marco le donne, come prima reazione, «fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8).
Siamo consapevoli che la nostra mente e la nostra esperienza sono troppo piccole per capire i grandi misteri di Dio, e non ci troviamo subito a nostro agio di fronte alla sua “logica”, che spesso sembra fare a pugni con la nostra “ragionevolezza”. Ci colpisce, tuttavia, il fatto che nei vangeli sinottici accanto alla tomba vuota appaia qualche misterioso personaggio il quale non solo conferma che Gesù è davvero risorto («È risorto! Non è qui!»), ma anche rimanda a parole di Gesù già sentite e, sembra, facilmente dimenticate. In Matteo viene detto alle donne: «È risorto, infatti, come aveva detto (Mt 28,6).
In Marco: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (Mc 16,7). In Luca le donne si sentono dire, in maniera ancora più esplicita: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno» (Lc 24,7). Come, dunque, se venisse detto: ma perché vi meravigliate che la tomba sia vuota? Non ricordate forse più? Perché non avete dato fiducia alla sua parola?
In effetti, come noi ci ripetiamo spesso, la fede in Dio che altro è se non dargli fiducia, fidarci di Lui fino in fondo? E fidarci pur non disponendo di evidenze schiaccianti (anche se siamo sempre tentati di cercarle, di volerle vedere in “prodigi” che costringano a dire: non può che essere così!).
In verità siamo cristiani grazie alla fede. Cristo lo si conosce veramente e lo si incontra nella fede, non come risultato di una ricerca scientifica, non come la presa d’atto di una constatazione a tutti palese e indubitabile. È per questo che nel cuore della grande celebrazione della Pasqua – la Veglia pasquale – ci è chiesto di riaffermare con gioiosa convinzione la nostra fede, rinnovando le cosiddette “promesse battesimali” e ripetendo: credo, credo, credo.
Ecco, la Pasqua ci mette inesorabilmente di fronte alla nostra fede, al nostro spoglio fidarci di Lui, accogliendo il messaggio rivolto alle donne: non cercate tra i morti colui che è vivo (cf. Lc 24,5). Il Natale lo abbiamo circondato di molta poesia (non sempre di ottimo gusto), di tradizioni un po’ esteriori, e sembra che lo festeggino volentieri anche cristiani poco ferventi, o forse poco credenti. Pasqua invece ha una sua austerità, una sua asciuttezza, quasi una sua nudità. È difficile crearci attorno favole per bambini, dolci melodie, luminarie e carillon. A Pasqua non c’è un presepio, dove ci si può mettere di tutto (spesso con simpatica fantasia), ma solo una tomba da cui è sorprendentemente rotolata via una pesante pietra. E un cadavere si è trasformato – se così si può dire – nel più vivo dei vivi. Il Risorto è il Vivente per eccellenza, portatore di vita all’umanità intera. Così leggiamo nella folgorante apertura di Christus vivit, la recente Esortazione di papa Francesco dopo il Sinodo sui giovani: «Cristo vive… Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita».
Ma abbiamo bisogno di lasciarci provocare da quel: “Non ricordate quello che vi aveva detto?”. Abbiamo bisogno di metterci con più intensa attenzione davanti alla vicenda di Gesù e alle sue parole, di capire meglio chi è Lui per noi. E allora ci renderemo conto che pietre, anche pesanti, possono rotolare via dalla nostra esistenza. Perfino quel masso enorme, pesantissimo, che sbarra la strada alla vita: la morte. Come pure tutto ciò che sa di morte e che fa morire la speranza, la dignità umana, che spegne o ferisce o rifiuta l’amore. Perché la Pasqua viene dall’amore, è frutto di un Amore che non ha eguali ed è più enorme, più poderoso della stessa morte.
Per noi cristiani la Pasqua è questo. E usando il linguaggio di papa Francesco potremmo dirci: non lasciamoci rubare la Pasqua! Ma anche: non ripudiamola con i nostri egoismi e con le nostre durezze di cuore.
Auguro a tutti, soprattutto a coloro che sono più segnati dalle fatiche dell’esistenza e più feriti dal non-amore, di celebrare e vivere una Pasqua cristiana, un vero incontro con Colui che è vivo.
† Gianfranco Agostino Gardin
Giovedì 18 aprile, nella chiesa cattedrale di Treviso il vescovo Gianfranco Agostino ha presieduto la messa del Crisma. Moltissimi i sacerdoti diocesani che hanno concelebrato, oltre a numerosi sacerdoti originari di altri Paesi, che vivono nel nostro territorio e seguono le comunità cattoliche di immigrati, i sacerdoti che prestano il loro servizio pastorale di sostegno alle nostre parrocchie durante questo tempo forte dell’anno liturgico, i religiosi di diverse comunità, i diaconi permanenti e i cinque giovani diaconi che presto saranno ordinati presbiteri.
Hanno concelebrato anche i vescovi Paolo Magnani, emerito di Treviso, Angelo Daniel, emerito di Chioggia, e Alberto Bottari De Castello, già nunzio apostolico in Ungheria.
Mons. Gardin ha voluto anche ricordare “con un sentimento di vivissima gratitudine e di profonda comunione spirituale, i nostri presbiteri fidei donum che lavorano in Ciad, Brasile, Ecuador, Paraguay e Perù. Mons. Gardin ha centrato la sua riflessione “sulla nostra condizione di ministri ordinati, chiamati dal Signore ad essere nel mondo umili strumenti della sua salvezza” richiamando il senso dell’invito di Gesù “fate questo in memoria di me”. “Nella Chiesa noi siamo chiamati ad essere, anzitutto, memoria viva di Cristo – ha detto il Vescovo -. Una memoria continuamente attinta dalla Parola, che rende presente nella nostra vita, e nella vita della Chiesa, il suo mistero pasquale, sintesi perfetta di ciò che Egli è per noi, vera attuazione di quanto annunciato nella sinagoga di Nazaret. Il tutto di Gesù si racchiude nel suo mistero pasquale, e dunque nell’Eucarestia”.
Pubblichiamo l’omelia integrale del Vescovo:
“A tutti voi, fratelli e sorelle, qui riuniti per la celebrazione della Messa Crismale, il mio saluto nel Signore, con la gioia di poter condividere questo bel momento della nostra Chiesa diocesana. Chiesa che, in questa assemblea liturgica, è così ben rappresentata nelle sue diverse vocazioni, tutte radicate nel fondamentale e immenso dono pasquale del nostro Battesimo.
La tradizione vuole – come è noto – che questa Eucarestia sia la più significativa occasione liturgica di incontro e di comunione del vescovo con il suo presbiterio (cf. Pastores dabo vobis, 80); al presbiterio si unisce anche la comunità dei diaconi, permanenti e incamminati al presbiterato. Tutti, anche i presbiteri provenienti da altre diocesi, saluto con grande affetto. E sono lieto della presenza dell’arcivescovo Alberto e dei vescovi Paolo e Angelo, ai quali va il mio saluto cordialissimo. Vorrei poi che il pensiero di tutti noi fosse rivolto, con un sentimento di vivissima gratitudine e di profonda comunione spirituale, ai nostri presbiteri fidei donum che lavorano in Ciad, Brasile, Ecuador, Paraguay e Perù.
Un augurio sincero e gioioso va a tutti coloro che quest’anno festeggiano i vari giubilei sacerdotali: dai più anziani, che ricordano un lungo percorso di presbiterato (addirittura 75 anni), ricco di doni ricevuti e offerti, fino ai presbiteri che celebrano i 25 anni. A loro un grazie sincero, nel nome di una fraternità che ci vede accomunati dalla medesima vocazione e nella stessa Chiesa particolare. Un fraterno augurio anche ai cinque diaconi permanenti che celebrano quest’anno il loro 25° di ordinazione.
La mia semplice riflessione vorrebbe invitare, se mai ne sono capace, a porci di fronte alla nostra condizione di ministri ordinati, chiamati dal Signore ad essere nel mondo umili strumenti della sua salvezza.
Abbiamo sentito annunciare da Gesù, nella sinagoga di Nazaret, la sua missione, servendosi della parole di Isaia. Egli si presenta come l’unto, l’inviato dal Padre; mandato soprattutto ai poveri e agli oppressi, per portare liberazione. E la promessa di Dio si compie in Lui, nell’oggi perenne che Lui è. Anche per noi Gesù è l’oggi di Dio, e rende oggi di Dio anche questa nostro tempo e l’esistenza cristiana che ad ognuno di noi è donata grazie al Battesimo.
Dal suo invio e dalla sua missione proviene anche la missione di tutta la Chiesa e, in particolare, quella dei ministri ordinati. Il Signore ha voluto aver bisogno di tali ministri, anche se sappiamo bene che la sua grazia e la creatività dello Spirito va al di là di ogni “via ordinaria” di salvezza, giacché – per citare una nota e preziosissima affermazione della Guaudium et spes – «dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (GS 22). Un’espressione, questa, che illumina il nostro sguardo sull’intera umanità e ci fa benedire l’amore senza confini di Dio.
Tuttavia torna opportuno richiamare qui un testo del magistero in cui leggiamo: «Senza sacerdoti la Chiesa non potrebbe vivere quella fondamentale obbedienza che è al cuore stesso della sua esistenza e della sua missione nella storia: l’obbedienza al comando di Gesù: “Andate dunque e ammaestrate tutte le genti” (Mt 28,19) e “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1Cor 11,24), ossia il comando di annunciare il Vangelo e di rinnovare ogni giorno il sacrificio del suo corpo dato e del suo sangue versato per la vita del mondo». (Pastores dabo vobis 1).
Poiché siamo nel Giovedì santo, giorno in cui facciamo memoria – lo vivremo nella seconda parte di questa giornata – dell’Ultima Cena di Gesù e di quanto avvenne quella sera nel Cenacolo (luogo carissimo ad ogni ministro ordinato), vorrei soffermarmi per qualche momento sull’invito di Gesù già richiamato: “fate questo in memoria di me”. Lo ripetiamo al cuore di ogni celebrazione eucaristica, sapendo che quel preciso comando racchiude il senso più vero del nostro ministero.
Quelle parole di Gesù ci chiedono dunque, anzitutto, che la memoria di Gesù sia in noi una memoria viva, stimolante, radice di ciò che noi siamo, e non solo di ciò che facciamo. Il nostro ministero, infatti, non è semplicemente una funzione, da assumere o deporre secondo degli orari o delle particolari incombenze: è uno stato di vita permanente, è una vocazione che pervade tutt’intera l’esistenza e ogni giornata, che plasma l’essere e guida l’agire.
Conosciamo il ricco significato del termine memoria nella Scrittura, espresso ancor più densamente dal termine memoriale: non un semplice ricordo che viene fatto riemergere da un passato lontano nel quale è sepolto, ma il rendere vivo e attuale un evento di cui diveniamo contemporanei e che ci coinvolge profondamente, perché avviene per noi, qui, oggi.
Nella Chiesa noi siamo chiamati ad essere, anzitutto, memoria viva di Cristo. Del resto – come ci ricorda papa Francesco – «il credente è fondamentalmente “uno che fa memoria”» (Evangelii gaudium 13). La memoria di Gesù dev’essere dentro di noi acuta e intensa, preziosissima e incancellabile. Una memoria mai totalmente dicibile, perché mai totalmente e definitivamente scoperta; una memoria che si fa esperienza sempre nuova e che non si può mai racchiudere in definizioni esaurienti; quasi una specie di – se posso esprimermi così, con linguaggio paradossale – di ossessione, ma liberante; di “chiodo fisso”, ma salutare e rasserenante; di tormento, ma dolcissimo e desiderato; di formidabile forza interiore insieme pacificante e sovversiva. In ogni caso, una memoria affascinante, che rende sempre viva la disponibilità a lasciare tutto e seguirlo; una memoria di cui non potremmo mai fare a meno, perché privi di Lui ci sentiamo al buio e al gelo, smarriti, senza radici, senza guida e senza mèta.
La memoria di Gesù, continuamente attinta dalla Parola, rende presente nella nostra vita, e nella vita della Chiesa, il suo mistero pasquale, sintesi perfetta di ciò che Egli è per noi, vera attuazione di quanto annunciato nella sinagoga di Nazaret. Il tutto di Gesù si racchiude nel suo mistero pasquale, e dunque nell’Eucarestia. Lì vi è il suo annuncio della “buona notizia”, il suo spendersi per i poveri, il suo prodigarsi per gli ultimi; ma vi è anche il suo essere per tanti anni l’umile e quasi sconosciuto “figlio del falegname” a Nazaret; e vi è poi il suo crescente sperimentare opposizione e rifiuto: da quel «volete andarvene anche voi?» rivolto ai Dodici nel momento in cui «molti dei suoi discepoli non andavano più con lui» (Gv 6,66s.), al sentir preferire a Lui dalla folla il delinquente Barabba; e ancora la sua energica determinazione nell’andare a Gerusalemme, ovvero verso il martirio; e ancora il suo piangere sulla tomba di Lazzaro; il suo salvare l’adultera dalla lapidazione e il suo narrare le parabole della misericordia; la sua preghiera straziante al Getzemani; il suo farsi – il giorno stesso della risurrezione – accompagnatore sconosciuto dei due sconfortati discepoli in cammino verso Emmaus.
Ecco qual è la nostra irrinunciabile memoria: non è solo il gesto eucaristico nel cenacolo; è la sua intera vita, rivelazione e dono dell’amore sconfinato del Padre. Come ci ricorda papa Francesco: «Tutta la vita di Gesù, il suo modo di trattare i poveri, i suoi gesti, la sua coerenza, la sua generosità quotidiana e semplice, e infine la sua dedizione totale, tutto è prezioso e parla alla nostra vita personale. Ogni volta che si torna a scoprirlo, ci si convince che proprio questo è ciò di cui gli altri hanno bisogno, anche se non lo riconoscono» (Evangelii gaudium 265).
Questa memoria è anche quella che ci spinge ad andare, a fare (“fate questo”, dice Gesù). Non è il fare concitato di un attivismo che confida più nell’organizzazione che nelle relazioni; non è il fare che cede alla tentazione di verificare i risultati numerici, di misurare successi o insuccessi pastorali. È un fare semplicemente dovuto a quanto dichiaravano gli apostoli dopo la Pentecoste: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto» (At 4,20). Ed è un fare che prima di esprimersi in opere ed iniziative, prende forma in atteggiamenti, in testimonianza di vita, nell’ascoltare chi cerca il volto del Dio accogliente, del Dio che si protende verso i più poveri, i più smarriti, i più assetati di giustizia, di umanità vera, ma anche, e forse proprio per questo, assetati – magari inconsapevolmente – di vangelo e di incontro con Gesù Cristo.
E se vogliamo più attentamente ricondurre il fate questo alla memoria di quanto avvenne quella sera nel cenacolo, non può certo sfuggirci quel suo chinarsi a lavare i piedi agli apostoli. Il che significa essere servi, ed essere anche costruttori e custodi di unità nelle nostre comunità cristiane; rendendo anzitutto lo stesso presbiterio luogo di una reciproca lavanda dei piedi: praticando cioè vicinanza, compassione, ascolto, rispetto, non giudizio, soprattutto verso i fratelli che vivono particolari fatiche.
Il “fate questo in memoria di me”, dunque, ci formi e ci converta ogni giorno, alimentando quel riferimento a Cristo, Signore e Maestro, che costituisce la spina dorsale del nostro essere ministri, ma prima ancora del nostro essere discepoli.
Ma lasciatemi, prima di concludere, dire con sincerità: tutto questo che ho richiamato lo scorgo vissuto in tanti di voi, e ne rendo grazie al Signore, oltre che a voi stessi, mentre riconosco di ricevere – di aver ricevuto in questi anni – dalla testimonianza di molti il dono di tante salutari provocazioni per me e per il mio ministero.
E allora, fratelli presbiteri e diaconi, camminiamo nell’unità, nell’amore reciproco, nel portare con disponibilità gli uni il peso degli altri, e anche nel praticare una convinta e paziente sinodalità ecclesiale, quale contesto necessario per praticare quelle conversioni pastorali a cui papa Francesco ci sollecita e che abbiamo deciso insieme di perseguire nel nostro Cammino Sinodale.
Il Signore ci ha chiamati e insieme ci ha dato e ci dà la grazia di rispondere, nonostante le nostre fragilità, che Lui conosce e non disprezza, ma risana.
Il rinnovo delle promesse sacerdotali che tra poco pronunceremo sia la convinta riaffermazione della nostra fedeltà a Colui che, come ci ha ricordato l’Apocalisse, è «il testimone fedele, il primogenito dai morti, (…) Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue» (Ap 5,8).
A tutti voi l’augurio di un Triduo pasquale vissuto in una fede intensa e in un amore convinto, resi nuovi dal Risorto. Colui nel quale riponiamo ogni nostra speranza.
Questa mattina, nella Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice, a Treviso, c’è stata la celebrazione eucaristica nel ricordo del bombardamento di Treviso del 7 aprile 1944. Ecco l’omelia del Vescovo:
“Siamo qui a rievocare un evento che ogni anno, il 7 aprile, è per questa città come una ferita che si riapre, un dolore che riemerge.
Anche se si va riducendo il numero dei testimoni diretti, che possono raccontarci dal vivo la tragedia di quel giorno di 75 anni fa, non ci è certo difficile ricostruire o rivivere, o anche solo immaginare, la sofferenza, la disperazione, il terrore, il lutto, la desolazione di quelle ore.
Come ricorda spesso papa Francesco di fronte alle grandi tragedie dell’umanità di ieri e di oggi, dobbiamo “saper piangere”; guai a noi se non siamo più capaci di piangere, se di fronte al male prodotto dagli uomini reagiamo con l’indifferenza o, peggio, con un egoistico – anche se inconfessato – “l’importante è che io stia bene!”.
Il nostro pensiero va naturalmente alle molte vittime innocenti, anche nel fiore degli anni o addirittura nella fanciullezza, colte quel giorno di sorpresa, e che magari si erano illuse di potersi salvare riparando nei rifugi; ma neppure i rifugi li hanno salvati.
Ci colpisce l’immagine, ascoltata nella prima lettura biblica, del profeta Geremia, vittima innocente perseguitata perché aveva richiamato il popolo ai suoi impegni. Egli si sente come un “agnello mansueto condotto al macello”. È l’immagine che usa anche, con ancora maggior forza espressiva, il profeta Isaia, descrivendo il misterioso personaggio del “servo del Signore” condotto a morte, nel quale si è sempre vista una singolare prefigurazione di Gesù condotto al Calvario.
Sono le parole suggestive e impressionanti, quelle di Isaia, che risuonano nella austera liturgia del venerdì santo. Gesù vi appare come un agnello portato al macello che non apre bocca; uomo sfigurato dai dolori, davanti al quale ci si copre la faccia. Ma il profeta dirà anche: dalle sue piaghe noi siamo stati guariti.
E certo noi restiamo sempre colpiti dal fatto che quel 7 aprile 1944 coincideva proprio con il venerdì santo.
Avvertiamo ancora una volta il bisogno di condannare ogni guerra – e tanto più, quanto più l’umanità si va dotando di strumenti di morte sempre più sofisticati e micidiali -; il bisogno e il dovere di operare in tutti i modi per preservare l’umanità dall’esperienza terribile e sciagurata della guerra.
Purtroppo anche noi cristiani abbiamo ceduto alla tentazione di praticare e favorire la guerra, magari benedicendo armi e invocando la mano di Dio perché sostenesse la vittoria. Dimenticando, oltretutto, che il Dio che Cristo ci ha annunciato sta dalla parte delle vittime, dei disgraziati, degli ultimi.
E purtroppo avviene ancora che chi chiede pace, giustizia, fratellanza, amore reciproco non sia amato e – come è avvenuto per Gesù: così ci ha ricordato la pagina evangelica ascoltata – sia perseguitato con arroganza e malvagità.
Affidiamo al Signore le vittime di quel – purtroppo indimenticabile – 7 aprile. Chiediamo a Lui che quel dolore immenso possa fecondare desideri e opere di pace, di solidarietà, di fratellanza, di ricerca comune del bene. Per la nostra amata città, per il mondo intero”.
† Gianfranco Agostino Gardin