Il Vescovo: Oscar e Francesco, umili strumenti di Colui che accoglie tutti

Messaggio pubblicato sulla “Vita del popolo” di domenica 27 maggio 2018

Sarà il legame di affetto o di amicizia con gli ordinandi, sarà che molti vi assistono per la prima volta, sarà che il rito si compone di alcuni gesti particolarmente espressivi, sta di fatto che nel celebrare le ordinazioni presbiterali avverto sempre la presenza di un’assemblea attenta e partecipe. Penso al coinvolgimento che suscitano alcuni momenti del rito, come per esempio quello della prostrazione a terra degli ordinandi durante il canto delle litanie dei Santi, o quello dell’imposizione delle mani da parte di un grande numero di sacerdoti, o ancora quello della vestizione dei paramenti sacerdotali, o dell’unzione delle mani con il crisma…

C’è però un momento, forse meno appariscente di altri, che potrebbe passare più inosservato: è quando il vescovo pone nelle mani dell’ordinato il calice con il vino e la patena con il pane che verranno consacrati nella stessa celebrazione eucaristica, dicendogli: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».

Confesso che quel gesto e quelle parole mi emozionano. «Renditi conto»: il pane e il vino che hai in mano diventeranno tra poco il suo corpo donato e il suo sangue versato, amore totale per ogni uomo; ebbene, lo diventeranno grazie al tuo ministero perché tu li metta a disposizione di tutti. San Paolo direbbe: sei un “amministratore dei misteri di Dio”. C’è da tremare. E poi quell’«imita» l’Eucarestia che celebri, «conforma la tua vita» al Crocifisso: il donarsi di Gesù è il tuo riferimento primo, assoluto, decisivo. Sui futuri preti il vescovo aveva usato prima formule quasi solo invocative: Signore, colmali di doni, custodiscili, siano degni, siano fedeli… Ora si esprime con un imperativo, un comando netto. Parole dunque che non si possono “decaffeinare” riducendole ad uno sbiadito “vedi un po’ se riesci a imitare Cristo”, o ad un “sarebbe bello che la tua vita manifestasse qualcosa della vita di Gesù”. No: imita, conforma! A pensarci bene, viene da dire che il neo ordinato, alla fine del rito – mi si conceda la battuta – viene messo a k.o., fuori combattimento. Dovrebbe venirgli la voglia di prostrarsi nuovamente a terra, chiedendo la replica delle litanie dei Santi, e di dire all’assemblea: per favore, non applausi, ma preci.

Ma devo anche osservare che l’ultimo gesto del rito, che avviene subito dopo, è assai simpatico: il neo-ordinato riceve l’abbraccio del vescovo dei sacerdoti presenti (e molti abbracciano con grande calore). Questo abbraccio non è una specie di cameratesca “pacca sulle spalle” per aiutare a riprendersi dal k.o. sopra ricordato. È come se i fratelli preti – ma anche il vescovo, il primo ad abbracciare l’ordinato –, oltre a dare ai nuovi sacerdoti il benvenuto nel presbiterio diocesano, dicessero: l’impegno che assumi è esigente, non c’è dubbio; ma ricordati che il Signore conosce fino in fondo la tua povertà e la tua fragilità, come conosce le nostre. Ma ti ha scelto così, anche con i tuoi limiti, e ti ha scelto senza storcere il naso, pensando: “purtroppo non ho trovato di meglio”. Si fida di te. Questo gli dicono, con il loro abbraccio, i preti di cui egli diviene fratello; e glielo dicono tutti, “a cominciare dai più vecchi” (come viene detto nel celebre episodio evangelico dell’adultera), i quali hanno maggiormente sperimentato che il Signore non licenzia affatto, irritato, i suoi servi segnati dalla fragilità. Gli dicono: coraggio, devi mettercela tutta ad imitarlo e a disegnare la tua vita sulla sua; ma sappi che Lui è accoglienza, misericordia, pazienza, benevolenza; si fa compagno di strada, lava i piedi, fascia le ferite. Perciò quell’«imitalo e conforma la tua vita alla sua» ti chiede soprattutto di fare con tutti quello che Lui fa con te: e dunque anche tu accogli, comprendi, tendi la mano, ascolta, accompagna, riconcilia, perdona. «Infatti – ci ricorda la Lettera agli Ebrei – non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze» (Eb 4,15).

E allora facciamoglielo questo applauso ai neo-ordinati, pieno di affetto, non perché si glorino dei “poteri” loro conferiti che altri non hanno, ma perché si facciano serenamente umili strumenti della sua misericordia. E la loro umanità, plasmata ogni giorno su quella di Cristo servo, diventi sommessa allusione alla Sua santa umanità, che porta impressi i segni della passione redentrice.

Coraggio, carissimi Oscar e Francesco, è il Signore che vi ha scelti e Lui sa quello che fa.

† Gianfranco Agostino Gardin

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