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“Affidiamo le famiglie a san Giuseppe, padre dal coraggio creativo”: aperto dal vescovo l’anno “Amoris Laetitia”

Nel giorno dedicato a san Giuseppe, sposo di Maria e patrono della Chiesa cattolica, il vescovo Michele ha riconosciuto il ruolo centrale delle famiglie e il loro valore e ha rivolto un appello a sostenerle: “Senza di loro non avremmo potuto sostenere la crisi come abbiamo fatto, come stiamo facendo. Non possiamo chiedere loro soltanto, senza dare nulla in cambio: dobbiamo almeno riconoscerne il valore … Continua a leggere “Affidiamo le famiglie a san Giuseppe, padre dal coraggio creativo”: aperto dal vescovo l’anno “Amoris Laetitia” »

Pasqua: il messaggio del Vescovo e l’invito a “incontrare il Vivente”

Carissimi fratelli e sorelle della Chiesa di Treviso,

ancora una volta ci è dato di vivere l’inestimabile dono della Pasqua. Pensando ad essa ci sorge forse la domanda: perché Gesù ha voluto che la sua risurrezione, diversamente dalla sua morte in croce, avvenisse non davanti a numerose persone, ma senza che nessuno potesse assistere a tale evento? Non sarebbe stato tutto più evidente e dunque più semplice anche per noi e per la nostra fede? Invece, nemmeno un testimone, nemmeno un piccolo bagliore nella notte scorto da lontano, e neppure, ci pare, un sia pur tenue presentimento nell’animo di chi gli voleva bene. Solo una tomba spalancata e vuota, che lascia sorpresi, anzi increduli, addirittura impauriti. Nel racconto di Marco le donne, come prima reazione, «fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite» (Mc 16,8).

Siamo consapevoli che la nostra mente e la nostra esperienza sono troppo piccole per capire i grandi misteri di Dio, e non ci troviamo subito a nostro agio di fronte alla sua “logica”, che spesso sembra fare a pugni con la nostra “ragionevolezza”. Ci colpisce, tuttavia, il fatto che nei vangeli sinottici accanto alla tomba vuota appaia qualche misterioso personaggio il quale non solo conferma che Gesù è davvero risorto («È risorto! Non è qui!»), ma anche rimanda a parole di Gesù già sentite e, sembra, facilmente dimenticate. In Matteo viene detto alle donne: «È risorto, infatti, come aveva detto (Mt 28,6).

In Marco: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto» (Mc 16,7). In Luca le donne si sentono dire, in maniera ancora più esplicita: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea e diceva: Bisogna che il Figlio dell’uomo sia consegnato in mano ai peccatori, sia crocifisso e risorga il terzo giorno» (Lc 24,7). Come, dunque, se venisse detto: ma perché vi meravigliate che la tomba sia vuota? Non ricordate forse più? Perché non avete dato fiducia alla sua parola?

In effetti, come noi ci ripetiamo spesso, la fede in Dio che altro è se non dargli fiducia, fidarci di Lui fino in fondo? E fidarci pur non disponendo di evidenze schiaccianti (anche se siamo sempre tentati di cercarle, di volerle vedere in “prodigi” che costringano a dire: non può che essere così!).

In verità siamo cristiani grazie alla fede. Cristo lo si conosce veramente e lo si incontra nella fede, non come risultato di una ricerca scientifica, non come la presa d’atto di una constatazione a tutti palese e indubitabile. È per questo che nel cuore della grande celebrazione della Pasqua – la Veglia pasquale – ci è chiesto di riaffermare con gioiosa convinzione la nostra fede, rinnovando le cosiddette “promesse battesimali” e ripetendo: credo, credo, credo.

Ecco, la Pasqua ci mette inesorabilmente di fronte alla nostra fede, al nostro spoglio fidarci di Lui, accogliendo il messaggio rivolto alle donne: non cercate tra i morti colui che è vivo (cf. Lc 24,5). Il Natale lo abbiamo circondato di molta poesia (non sempre di ottimo gusto), di tradizioni un po’ esteriori, e sembra che lo festeggino volentieri anche cristiani poco ferventi, o forse poco credenti. Pasqua invece ha una sua austerità, una sua asciuttezza, quasi una sua nudità. È difficile crearci attorno favole per bambini, dolci melodie, luminarie e carillon. A Pasqua non c’è un presepio, dove ci si può mettere di tutto (spesso con simpatica fantasia), ma solo una tomba da cui è sorprendentemente rotolata via una pesante pietra. E un cadavere si è trasformato – se così si può dire – nel più vivo dei vivi. Il Risorto è il Vivente per eccellenza, portatore di vita all’umanità intera. Così leggiamo nella folgorante apertura di Christus vivit, la recente Esortazione di papa Francesco dopo il Sinodo sui giovani: «Cristo vive… Tutto ciò che Lui tocca diventa giovane, diventa nuovo, si riempie di vita».

Ma abbiamo bisogno di lasciarci provocare da quel: “Non ricordate quello che vi aveva detto?”. Abbiamo bisogno di metterci con più intensa attenzione davanti alla vicenda di Gesù e alle sue parole, di capire meglio chi è Lui per noi. E allora ci renderemo conto che pietre, anche pesanti, possono rotolare via dalla nostra esistenza. Perfino quel masso enorme, pesantissimo, che sbarra la strada alla vita: la morte. Come pure tutto ciò che sa di morte e che fa morire la speranza, la dignità umana, che spegne o ferisce o rifiuta l’amore. Perché la Pasqua viene dall’amore, è frutto di un Amore che non ha eguali ed è più enorme, più poderoso della stessa morte.

Per noi cristiani la Pasqua è questo. E usando il linguaggio di papa Francesco potremmo dirci: non lasciamoci rubare la Pasqua! Ma anche: non ripudiamola con i nostri egoismi e con le nostre durezze di cuore.

Auguro a tutti, soprattutto a coloro che sono più segnati dalle fatiche dell’esistenza e più feriti dal non-amore, di celebrare e vivere una Pasqua cristiana, un vero incontro con Colui che è vivo.

 

                                                                                            † Gianfranco Agostino Gardin

 

Nuovi sacerdoti: un dono che stupisce

“L’ordinazione di un prete è una celebrazione dello stupore cristiano” ha detto il Vescovo che sabato 26 maggio ha ordinato sacerdoti Oscar Pastro e Francesco Bellato. Il Signore, infatti, opera grandi cose attraverso la piccola persona del prete, che arriva a donarsi con la stessa passione di Gesù, inviato al suo popolo.

Pubblichiamo l’omelia del vescovo Gianfranco Agostino Gardin pronunciata durante la celebrazione:

Fratelli e sorelle carissimi,

celebriamo le ordinazioni presbiterali nella solennità della Santissima Trinità, e potremmo dire che si tratta di un contesto liturgico particolarmente felice per questa celebrazione. La solennità della Trinità ci ricorda che per il cristiano tutto viene dal Padre, mediante il Figlio, nello Spirito Santo. Anche il dono del presbiterato che riceveranno Francesco e Oscar.

Certo, il pensiero che il sacerdote è chiamato a divenire strumento per gli uomini dei doni di Dio (del dono stesso che è Dio), lo intimorisce. È un timore ben comprensibile se accostiamo al Dio Uno e Trino, al Dio tre volte Santo, all’Eterno, al Dio mai totalmente conoscibile e dicibile, la piccola creatura umana che è il prete. Come non trepidare, noi sacerdoti, come non turbarci, pensando che il nostro ministero scaturisce dalla Trinità santa e deve condurre ad Essa?

Nella grande preghiera di ordinazione il vescovo dice: «Siano, o Padre, [questi presbiteri] fedeli dispensatori dei tuoi misteri». I “misteri di Dio” non sono tanto ciò che della sua identità è enigmatico, inafferrabile; sono la sua paternità, il suo amore infinito manifestato in Cristo, il suo disegno di salvezza che esprime, e nello Spirito Santo attua, il suo desiderio che tutti siano con Lui per sempre. Il sacerdote “dispensa” tutto questo, lo rende vita per la vita degli uomini.

Il magistero della Chiesa insegna che «lo Spirito Santo mediante l’Ordine pone i presbiteri nella Chiesa come servi della pienezza della vita cristiana di tutti i battezzati». Notiamo: non tanto organizzatori della vita ecclesiale, o gestori della vita parrocchiale: ma servi della pienezza della vita cristiana» (PDV 15). Potremmo dire: grazie a loro, ordinariamente, tutti possono essere raggiunti dalla vita trinitaria di Dio, che è totalità di amore (pensiamo al presbitero che annuncia il Vangelo e celebra i sacramenti).

E allora possiamo dire che, come sempre, il Dio cristiano ci stupisce. A me pare che già la celebrazione della Trinità sia la festa dello “stupore cristiano”. Abbiamo sentito lo stupore espresso dalle parole del Deuteronomio, nella prima lettura, che in sostanza diceva: ma quando mai è successo che un popolo abbia sentito parlare Dio e sia rimasto vivo? Come dire: la piccola creatura umana non può reggere all’incontro con il Dio immenso, creatore e signore del cielo e della terra! È troppo grande la distanza. E come mai con il nostro Dio questo è possibile? E dove si trova – diceva ancora il testo – un dio che si sia scelto una piccola nazione, amandola e custodendola, come ha fatto Dio con Israele? (cf. Dt 4,32-34).

Questo è un testo dell’Antico Testamento; ma noi, dopo la venuta di Gesù, possiamo aggiungere, con uno stupore ancora più grande: e che cosa diremo di un Dio che ha mandato suo Figlio tra noi a farsi uno di noi, anzi servo e crocifisso per noi? E in Lui ci ha resi fratelli, così, ci ha detto Paolo, da poter gridare: «Abbà! Padre!» (Rom 8,15). Ma potremmo poi aggiungere: e come è possibile che Dio scelga dei poveri uomini, peccatori come gli altri, per comunicare a tutti la pienezza della sua vita divina? In certa misura, anche l’ordinazione di un prete è una celebrazione dello stupore cristiano.

Anche se – permettetemi di dire – l’attenzione, o forse l’ammirazione e lo stupore, talora si sono troppo spostati dal Signore al sacerdote. E così si è usata per esempio, speriamo senza eccessivo autocompiacimento, l’espressione sacerdos alter Christus: il sacerdote è un altro Cristo, pensando ai cosiddetti “poteri” che gli sono conferiti: consacrare, assolvere, guidare, ecc. In verità, tale stupore più che farci dire: quanto è grande il prete; deve piuttosto farci dire: quanto è piccolo e sempre inadeguato il prete al confronto di ciò il Signore opera attraverso di Lui; quanto è grande, invece, la benevolenza del Signore che non teme di servirsi di questi strumenti modesti. Come direbbe Paolo: portatori di un immenso tesoro (il Signore) in fragili vasi di creta (le loro persone) (cf. 2Cor 4,7).

Del resto siamo aiutati a riconoscere la nostra povertà, noi ministri, proprio dal brano evangelico ascoltato. Di fronte a Gesù che si congeda dagli apostoli, essi – racconta Matteo – «si prostrarono»; però anche «dubitarono». Intanto sono undici, non più i Dodici: è dunque possibile la defezione, il tradimento; poi manifestano una fede debole, attraversata dal dubbio. Eppure – ecco lo stupore – il Risorto li invia. Li invia dicendo loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18). È Lui che salva: ogni potere è suo, e questo libera gli inviati dall’assillo e dalla tentazione di attribuirsi poteri umani. E se qualcosa li assimila a Cristo non sono i poteri, ma ciò che caratterizza ed emerge con evidenza da tutta la storia di Gesù: il suo donarsi.

Il “donarsi” è necessariamente richiesto da quell’andate, fate discepoli, trasmettete la vita che scaturisce dalla Trinità (espressamente nominata: «battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»). ‘Andare’ vuol dire anche lasciare, vuol dire muoversi con la libertà e la leggerezza di chi non intende insediarsi, installarsi, ma è pronto a piantare la propria piccola tenda altrove, là dove c’è bisogno di fare discepoli. Con la formidabile convinzione che Lui “è con noi”, è con coloro che ha inviato, tutti i giorni. Ed è presente non come il solutore di ogni problema e il garante della riuscita di ogni iniziativa ecclesiale o pastorale, ma come Colui che spinge a servire, per riprendere le sue parole dette agli apostoli nel cenacolo: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve»(Lc 22,27), cioè come colui che lava i piedi, colui che si dona.

Ho letto con piacere – come faccio sempre in questa circostanza – le riflessioni offerte dai due ordinandi nella rivista del Seminario. Francesco ha messo l’accento sul “per sempre” della sua riposta alla chiamata di Colui, Gesù, che ama “per sempre”. È bello sentire questa voglia di fedeltà totale. Il “per sempre” della risposta dice un donarsi senza restrizioni, senza riserve. Oscar riferisce come si sia ritrovato in alcune parole inviategli come augurio: «Il posto di un sacerdote è la sua gente: in chiesa, per strada, in fabbrica, a scuola, ovunque ci sia bisogno di lui». E commenta: «Per anni ho chiesto al Signore quale fosse il mio posto nel mondo, e in quella semplice frase era racchiuso ciò che in questi anni ho scoperto». Grazie Francesco e Oscar.

Papa Francesco: «Per essere evangelizzatori autentici occorre anche sviluppare il gusto spirituale di rimanere vicini alla vita della gente (…). La missione è una passione per Gesù ma, al tempo stesso, è una passione per il suo popolo. Lui vuole servirsi di noi per arrivare sempre più vicino al suo popolo amato. Ci prende in mezzo al popolo e ci invia al popolo, in modo che la nostra identità non si comprende senza questa appartenenza» (EG 268).

Vi chiedo – è una richiesta e insieme un augurio – di amare fin d’ora la gente a cui sarete mandati, di immedesimarvi con quel popolo che sarà il vostro. È in mezzo al popolo santo di Dio che avete udito e accolto la chiamata, da lì venite, e lì avete incontrato, a partire dai vostri genitori e fino ai vostri formatori in Seminario, le molte persone che vi hanno aiutato a crescere, giungendo a dire un sì trepidante ma convinto.

E allora concludo esprimendo un conciso ma densissimo grazie a tutte queste persone; ma un grazie commosso lo diciamo anche a voi che avete dichiarato il vostro “eccomi”. Ma il grazie più grande va al Signore, che non finisce di stupirci.

Il Vescovo: Oscar e Francesco, umili strumenti di Colui che accoglie tutti

Messaggio pubblicato sulla “Vita del popolo” di domenica 27 maggio 2018

Sarà il legame di affetto o di amicizia con gli ordinandi, sarà che molti vi assistono per la prima volta, sarà che il rito si compone di alcuni gesti particolarmente espressivi, sta di fatto che nel celebrare le ordinazioni presbiterali avverto sempre la presenza di un’assemblea attenta e partecipe. Penso al coinvolgimento che suscitano alcuni momenti del rito, come per esempio quello della prostrazione a terra degli ordinandi durante il canto delle litanie dei Santi, o quello dell’imposizione delle mani da parte di un grande numero di sacerdoti, o ancora quello della vestizione dei paramenti sacerdotali, o dell’unzione delle mani con il crisma…

C’è però un momento, forse meno appariscente di altri, che potrebbe passare più inosservato: è quando il vescovo pone nelle mani dell’ordinato il calice con il vino e la patena con il pane che verranno consacrati nella stessa celebrazione eucaristica, dicendogli: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».

Confesso che quel gesto e quelle parole mi emozionano. «Renditi conto»: il pane e il vino che hai in mano diventeranno tra poco il suo corpo donato e il suo sangue versato, amore totale per ogni uomo; ebbene, lo diventeranno grazie al tuo ministero perché tu li metta a disposizione di tutti. San Paolo direbbe: sei un “amministratore dei misteri di Dio”. C’è da tremare. E poi quell’«imita» l’Eucarestia che celebri, «conforma la tua vita» al Crocifisso: il donarsi di Gesù è il tuo riferimento primo, assoluto, decisivo. Sui futuri preti il vescovo aveva usato prima formule quasi solo invocative: Signore, colmali di doni, custodiscili, siano degni, siano fedeli… Ora si esprime con un imperativo, un comando netto. Parole dunque che non si possono “decaffeinare” riducendole ad uno sbiadito “vedi un po’ se riesci a imitare Cristo”, o ad un “sarebbe bello che la tua vita manifestasse qualcosa della vita di Gesù”. No: imita, conforma! A pensarci bene, viene da dire che il neo ordinato, alla fine del rito – mi si conceda la battuta – viene messo a k.o., fuori combattimento. Dovrebbe venirgli la voglia di prostrarsi nuovamente a terra, chiedendo la replica delle litanie dei Santi, e di dire all’assemblea: per favore, non applausi, ma preci.

Ma devo anche osservare che l’ultimo gesto del rito, che avviene subito dopo, è assai simpatico: il neo-ordinato riceve l’abbraccio del vescovo dei sacerdoti presenti (e molti abbracciano con grande calore). Questo abbraccio non è una specie di cameratesca “pacca sulle spalle” per aiutare a riprendersi dal k.o. sopra ricordato. È come se i fratelli preti – ma anche il vescovo, il primo ad abbracciare l’ordinato –, oltre a dare ai nuovi sacerdoti il benvenuto nel presbiterio diocesano, dicessero: l’impegno che assumi è esigente, non c’è dubbio; ma ricordati che il Signore conosce fino in fondo la tua povertà e la tua fragilità, come conosce le nostre. Ma ti ha scelto così, anche con i tuoi limiti, e ti ha scelto senza storcere il naso, pensando: “purtroppo non ho trovato di meglio”. Si fida di te. Questo gli dicono, con il loro abbraccio, i preti di cui egli diviene fratello; e glielo dicono tutti, “a cominciare dai più vecchi” (come viene detto nel celebre episodio evangelico dell’adultera), i quali hanno maggiormente sperimentato che il Signore non licenzia affatto, irritato, i suoi servi segnati dalla fragilità. Gli dicono: coraggio, devi mettercela tutta ad imitarlo e a disegnare la tua vita sulla sua; ma sappi che Lui è accoglienza, misericordia, pazienza, benevolenza; si fa compagno di strada, lava i piedi, fascia le ferite. Perciò quell’«imitalo e conforma la tua vita alla sua» ti chiede soprattutto di fare con tutti quello che Lui fa con te: e dunque anche tu accogli, comprendi, tendi la mano, ascolta, accompagna, riconcilia, perdona. «Infatti – ci ricorda la Lettera agli Ebrei – non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze» (Eb 4,15).

E allora facciamoglielo questo applauso ai neo-ordinati, pieno di affetto, non perché si glorino dei “poteri” loro conferiti che altri non hanno, ma perché si facciano serenamente umili strumenti della sua misericordia. E la loro umanità, plasmata ogni giorno su quella di Cristo servo, diventi sommessa allusione alla Sua santa umanità, che porta impressi i segni della passione redentrice.

Coraggio, carissimi Oscar e Francesco, è il Signore che vi ha scelti e Lui sa quello che fa.

† Gianfranco Agostino Gardin

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