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Vocazioni: una sinfonia di “sì”. Veglia diocesana sabato 15 maggio

Vivremo la Veglia diocesana di preghiera per le Vocazioni in Cattedrale sabato 15 maggio alle ore 20.15 (diretta streaming sul canale YouTube della diocesi).

Quest’anno ha un tocco particolare, artistico, che parla di bellezza, di armonia di musica, di sinfonia: la sinfonia delle vocazioni, di tutti i “Sì” detti e donati a Dio.

“La comunione nella Chiesa non è infatti uniformità, ma dono dello Spirito che passa anche attraverso la varietà dei carismi e degli stati di vita. Questi saranno tanto più «utili» alla Chiesa e alla sua missione, quanto maggiore sarà il rispetto della loro identità. In effetti, ogni dono dello Spirito è concesso perché fruttifichi per il Signore nella crescita della fraternità e della missione” (Giovanni Paolo II, Vita Consacrata, 4).

La vocazione personale trova la sua pienezza all’interno di questa sinfonia di vocazioni.

Nella Veglia alcune domande guideranno la riflessione: Qual è la colonna sonora che mi accompagna in questo periodo?; Chi è il compositore della mia vita?

Insieme a testimoni “artisti” che ci parleranno del loro “Sì” alla vita in questa sinfonia, capiremo le parole chiave che accompagnano ogni cammino:

– Sogno/desiderio che mette in moto la ricerca vocazionale.

– La Chiesa dove ogni vocazione è una vocazione all’amore, che è sempre per qualcuno e insieme a qualcun altro. E’ sempre una storia custodita nel grembo della Chiesa, dove trova il suo compimento e prende su di sé l’altro.

– Il coraggio di scegliere/rispondere alla chiamata del Signore. Dove trovare il coraggio di perdere se stessi interamente, in favore dell’altro? C’è una fonte inesauribile di coraggio, che è l’amore del Padre, riconoscendoci figli prediletti, mai soli.

Ascolteremo la Parola di Dio e insieme al nostro vescovo Michele approfondiremo le parole di San Paolo “Un solo corpo… doni diversi”. Il rapporto vocazione – comunione rende chiaro e presente il fatto che ciascuno di noi è chiamato dal Signore a favore di tutti. Non solo Egli versa la sua misericordia su ciascuna delle sue creature, ma chiede a tutte di esistere a favore l’una dell’altra. Questo esige che si sappia riconoscere e vivere all’interno della comunità cristiana la comunione anche di tutti i doni che lo Spirito elargisce. E’ una diversità “sinfonica” proprio perché la Comunità ha bisogno dell’esercizio effettivo e continuato dei doni di ciascuno.

Pregare per le vocazioni significa, anzitutto, pregare perché molti e molte abbiano il coraggio di donarsi con gioia, sentendosi direttamente convocati e attirati dall’amore di Cristo, rispondendo al suo Amore e sapendo di non essere soli, ma parte di un’opera d’arte, che annuncia e testimonia la Sua pienezza di vita in noi.

E’ questo il nostro augurio per i giovani: abbiate coraggio, affidatevi al Signore della Vita e alle guide che Lui mette sulla vostra strada, fratelli e sorelle che vi possono aiutare perché hanno unito il loro sì a quello di Gesù.

Solo in Cristo noi possiamo incontrare un sì continuo e totale, senza ambiguità o contraddizioni. E’ il sì di Dio Padre che nel Figlio ha mantenuto le sue promesse all’umanità. E’ per questo che anche l’uomo può dire il suo sì, in risposta all’amore del Padre.

(Pastorale giovanile e Centro vocazioni)

Chiamati alla pienezza di vita: il Messaggio del Vescovo per la Giornata delle vocazioni

Ogni momento importante nella vita di una persona è vissuto come risposta a un appello, a una voce che chiama.

Perché hai fatto quella scelta? Pensi davvero di aver prima calcolato tutte le possibili alternative e di aver deciso quale sia alla fine la più conveniente, forse anche la più promettente?

O invece pensi che sia stato solamente un caso che tu ti trovassi proprio là e in quel momento, quando hai scoperto quella possibilità che hai poi realizzato? E ancora, perché hai deciso di vivere proprio quella, e non hai aspettato invece che il tempo ti portasse altre alternative che, forse, avrebbero potuto essere maggiormente allettanti?

Se qualcosa ti piace, se qualcosa ha attirato la tua attenzione vuol dire che questa realtà ti sta chiamando.

Se pensi di dover fare qualcosa che magari non ti piace, ma senti di doverla fare: ecco – appunto – stai «sentendo» di doverla fare. Stai ascoltando una voce, magari non fatta di suoni, ma che ciononostante parla, e continua a farsi sentire finché non le hai dato una risposta. È la coscienza, questa, che parla, che si appella alla tua libertà e responsabilità, che ti chiama. E in ogni piccola e apparentemente insignificante chiamata (a scegliere, a fare, a mettere in qualche modo in moto la volontà) c’è sempre un appello più profondo e più pressante, più sfumato, più antico, più potente.

Molte chiamate si fanno sentire oggi in forma di nostalgia di un tempo «prima della pandemia», o nell’attesa di un tempo in cui ci si potrà rivedere con più naturalezza, in cui legami interrotti potranno riannodarsi e si potrà parlare di nuovo la lingua tanto desiderata dell’immediatezza. Al fondo di questi appelli così impellenti c’è però una richiesta, la chiamata a una vita più autentica, che mostri più chiaramente la sua sensatezza di quanto non sembri poter fare questa esistenza reclusa, limitata, frammentata. È la chiamata, in fondo, alla pienezza di vita, alla felicità.

Ma è davvero lecito parlare di felicità in questo tempo? È giusto parlarne in tempi precari, ancora tutto sommato di emergenza, sicuramente incerti e indecisi?

Sì, lo è. Anche in questo tempo. Forse soprattutto in questo tempo, in cui la mancanza di tante caratteristiche di ciò che consideriamo una «vita normale» ci sfida – e cioè ci interpella, ci chiama – a non fermarci in superficie. Sappiamo, infatti, che anche se riuscissimo a tornare a un livello precedente, «come se nulla fosse stato», probabilmente dopo un primo momento di sollievo la soluzione non ci basterebbe, e saremmo ancora inquieti. Proprio in questo tempo di fatica sentiamo – ecco, ancora una volta una chiamata, una vocazione – che vale la pena di impegnarci solamente per i grandi sogni, per le relazioni vere, per le realtà sostanziose che restano. Sentiamo chiaramente che non possiamo buttare tempo ed energia per cose che sono magari buone, ma che non danno colore e peso alla vita. È la vita intera che viene interpellata. È il significato della vita, la sua sostanza, ciò che di essa dura in eterno e vince il tempo, il dolore e la morte. Ne va davvero della vita.

Ciò che conta è che questo nostro tempo non vada sprecato in sterili attese, ma venga piuttosto impiegato nell’ascolto della più profonda delle voci che ci stanno chiamando. Tra tutte la più delicata, la più autentica, la più amica. L’unica, in fondo, necessaria. Quella che ci scalda il cuore quando la sentiamo rivolta personalmente a noi mentre sa leggere la vita che ci è data insieme alle promesse delle Scritture sante. Quella che continua a dirci che è possibile un’umanità piena, fatta di relazioni autentiche e profonde, di amicizia vera, di cura reciproca. Quella che ci assicura che nulla di ciò che ci fa respirare e sorridere andrà perduto, e che tutto invece ha un senso vero, buono e bello. Quella che ci assicura che è possibile, desiderabile e sensato donare la propria vita a Dio e ai fratelli.

Non è necessario un collegamento on-line per sentire questa voce, né qualche particolare accorgimento tecnico. Essa non è riservata a qualcuno in particolare e non richiede esercizi strani o impegnativi. È una voce che supera anche grandi distanze fisiche e che non viene imbrigliata e soffocata dalle mascherine.

Basta non fermarsi alla superficie e non accontentarsi di frasi fatte, di slogan alla moda. Basta essere attenti. E basta fare attenzione ai particolari:

“Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari.
Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa.
Il piccolo particolare che mancava una pecora.
Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine.
Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda.
Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano.
Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba.

La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre” (Papa Francesco, Gaudete et Exsultate, 144-145).

E tante risposte alla chiamata daranno corpo alla speranza.

+Michele, Vescovo

Il Seminario: un cenacolo e un laboratorio. Messaggio del Vescovo per la Giornata

Celebrare la Giornata del Seminario significa ricordare quanto importante sia per una Chiesa diocesana il dono di giovani che si preparano a diventare presbiteri; e anche quanto necessari siano il discernimento accurato della loro vocazione, la loro formazione e il loro sapiente accompagnamento verso l’ordinazione sacerdotale.

In questo ultimo tempo il numero dei seminaristi del nostro Seminario maggiore – quello cioè formato dai giovani degli ultimi sei-sette anni di formazione – è diminuito in maniera consistente (ciò che sta avvenendo, del resto, in tutte le diocesi del Triveneto, e non solo). Non è certo questo breve messaggio il luogo per tentare di addentrarci nelle ragioni, senza dubbio complesse, di questo calo. Si tratta, comunque, di un fenomeno che ci interpella tutti, preti e laici, Chiesa diocesana e comunità parrocchiali. A me preme solo dire, in questa circostanza, che noi non cessiamo di credere fermamente nella funzione del Seminario, e che nulla deve distoglierci dal continuare a farne una realtà verso la quale non vanno risparmiate cure e attenzioni, offerte formative serie e anche esigenti, ovviamente diverse in relazione alle varie età dei seminaristi e alle differenti fasi educative. Questa è anche l’occasione per testimoniare, da parte mia, la presenza e l’impegno di un gruppo di preti che per il Seminario lavorano con grande disponibilità e dedizione, anche sacrificando generosamente una personale propensione alla vita pastorale nelle parrocchie. Essi meritano davvero la gratitudine di tutti; così come la meritano i molti che, in maniere diverse, aiutano il Seminario.

E qui il mio pensiero corre alla figura di don Pierluigi Guidolin, il rettore del Seminario degli ultimi cinque anni, che il giugno scorso ci è stato strappato da una morte prematura, quando al Seminario stava dando il meglio di sé. Per me è difficile ricordare don Pierluigi al di fuori del Seminario: del resto vi ha speso, con passione crescente, 20 dei suoi 23 anni di sacerdozio. Devo dire che ha aiutato anche me a guardare al Seminario con ancora più intenso affetto e a riconoscerlo come un bene preziosissimo da custodire con cura, a scorgere nei seminaristi dei figli da amare con premurosa dedizione.

È proprio la vita evangelicamente e lucidamente spesa per gli altri di don Pierluigi, in particolare per la causa delle vocazioni presbiterali, che invita a riflettere su due domande.

La prima è: si è forse prosciugata la sorgente che genera nel cuore di ragazzi, adolescenti e giovani il desiderio di mettere la propria vita a servizio dell’annuncio di Gesù, del vangelo, della comunità dei credenti? Don Pierluigi aveva chiesto che il brano evangelico del suo funerale fosse quello in cui Gesù presenta se stesso come il chicco di grano che, caduto in terra, muore e produce molto frutto (cf. Gv 12,24). Aveva scritto che in quelle parole egli scorgeva in filigrana la sua vicenda vocazionale. Ebbene, dobbiamo credere che il farsi, come Gesù, chicco seminato nel terreno di una donazione di sé che genera vita cristiana, può ancora affascinare chi non voglia non tenersi stretta, solo per sé, la propria esistenza («chi ama la propria vita, la perde», sono le parole di Gesù che spiegano l’immagine del chicco di grano che muore). Mi viene da dire: dobbiamo scovarli, questi giovani desiderosi di donarsi, dobbiamo aiutarli a identificare in loro una chiamata che forse stenta a farsi strada in mezzo a situazioni intricate, dentro storie attraversate da vari condizionamenti, anche da controtestimonianze; dobbiamo, soprattutto, farli incontrare con Gesù. E le comunità cristiane devono sempre più prendere coscienza che i futuri preti non si “fabbricano” artificialmente; certo, si formano, ma soprattutto si aiutano a scoprire e a dissotterrare “il tesoro nel campo” di cui ci parla il vangelo. Questo tesoro è Gesù, l’uomo totalmente per gli altri.

La seconda domanda è come accompagnare, sostenere e rendere solida la risposta di chi percepisce la chiamata al sacerdozio. Qui il Seminario trova tutto il suo senso come cenacolo e come laboratorio. Come cenacolo: luogo in cui ci si aiuta insieme (formatori e formandi), attorno a Gesù, ad assumere una vita che si conforma a Lui e impregnata di servizio alla Chiesa. Come laboratorio: luogo in cui si cerca di comprendere come essere autentici presbiteri per l’oggi e per il domani di una Chiesa che, se vuol essere fedele al suo Signore e Maestro, deve sempre riformare se stessa.

Tutto questo domanda luce e forza dello Spirito Santo, preghiera, fiducia nell’azione di Dio, solidarietà dell’intera Chiesa diocesana. Ma chiede anche modelli sacerdotali capaci di affascinare, e poi comunità cristiane che non “pretendano” preti, ma li sappiano generare come grembo fecondo, e li amino: dal primo giorno del loro ingresso in Seminario fino a quando li “restituiscono”, con gratitudine, al Signore che li ha chiamati e a quelle comunità li ha inviati.

 

† Gianfranco Agostino Gardin

Il Vescovo: Oscar e Francesco, umili strumenti di Colui che accoglie tutti

Messaggio pubblicato sulla “Vita del popolo” di domenica 27 maggio 2018

Sarà il legame di affetto o di amicizia con gli ordinandi, sarà che molti vi assistono per la prima volta, sarà che il rito si compone di alcuni gesti particolarmente espressivi, sta di fatto che nel celebrare le ordinazioni presbiterali avverto sempre la presenza di un’assemblea attenta e partecipe. Penso al coinvolgimento che suscitano alcuni momenti del rito, come per esempio quello della prostrazione a terra degli ordinandi durante il canto delle litanie dei Santi, o quello dell’imposizione delle mani da parte di un grande numero di sacerdoti, o ancora quello della vestizione dei paramenti sacerdotali, o dell’unzione delle mani con il crisma…

C’è però un momento, forse meno appariscente di altri, che potrebbe passare più inosservato: è quando il vescovo pone nelle mani dell’ordinato il calice con il vino e la patena con il pane che verranno consacrati nella stessa celebrazione eucaristica, dicendogli: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai, conforma la tua vita al mistero della croce di Cristo Signore».

Confesso che quel gesto e quelle parole mi emozionano. «Renditi conto»: il pane e il vino che hai in mano diventeranno tra poco il suo corpo donato e il suo sangue versato, amore totale per ogni uomo; ebbene, lo diventeranno grazie al tuo ministero perché tu li metta a disposizione di tutti. San Paolo direbbe: sei un “amministratore dei misteri di Dio”. C’è da tremare. E poi quell’«imita» l’Eucarestia che celebri, «conforma la tua vita» al Crocifisso: il donarsi di Gesù è il tuo riferimento primo, assoluto, decisivo. Sui futuri preti il vescovo aveva usato prima formule quasi solo invocative: Signore, colmali di doni, custodiscili, siano degni, siano fedeli… Ora si esprime con un imperativo, un comando netto. Parole dunque che non si possono “decaffeinare” riducendole ad uno sbiadito “vedi un po’ se riesci a imitare Cristo”, o ad un “sarebbe bello che la tua vita manifestasse qualcosa della vita di Gesù”. No: imita, conforma! A pensarci bene, viene da dire che il neo ordinato, alla fine del rito – mi si conceda la battuta – viene messo a k.o., fuori combattimento. Dovrebbe venirgli la voglia di prostrarsi nuovamente a terra, chiedendo la replica delle litanie dei Santi, e di dire all’assemblea: per favore, non applausi, ma preci.

Ma devo anche osservare che l’ultimo gesto del rito, che avviene subito dopo, è assai simpatico: il neo-ordinato riceve l’abbraccio del vescovo dei sacerdoti presenti (e molti abbracciano con grande calore). Questo abbraccio non è una specie di cameratesca “pacca sulle spalle” per aiutare a riprendersi dal k.o. sopra ricordato. È come se i fratelli preti – ma anche il vescovo, il primo ad abbracciare l’ordinato –, oltre a dare ai nuovi sacerdoti il benvenuto nel presbiterio diocesano, dicessero: l’impegno che assumi è esigente, non c’è dubbio; ma ricordati che il Signore conosce fino in fondo la tua povertà e la tua fragilità, come conosce le nostre. Ma ti ha scelto così, anche con i tuoi limiti, e ti ha scelto senza storcere il naso, pensando: “purtroppo non ho trovato di meglio”. Si fida di te. Questo gli dicono, con il loro abbraccio, i preti di cui egli diviene fratello; e glielo dicono tutti, “a cominciare dai più vecchi” (come viene detto nel celebre episodio evangelico dell’adultera), i quali hanno maggiormente sperimentato che il Signore non licenzia affatto, irritato, i suoi servi segnati dalla fragilità. Gli dicono: coraggio, devi mettercela tutta ad imitarlo e a disegnare la tua vita sulla sua; ma sappi che Lui è accoglienza, misericordia, pazienza, benevolenza; si fa compagno di strada, lava i piedi, fascia le ferite. Perciò quell’«imitalo e conforma la tua vita alla sua» ti chiede soprattutto di fare con tutti quello che Lui fa con te: e dunque anche tu accogli, comprendi, tendi la mano, ascolta, accompagna, riconcilia, perdona. «Infatti – ci ricorda la Lettera agli Ebrei – non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze» (Eb 4,15).

E allora facciamoglielo questo applauso ai neo-ordinati, pieno di affetto, non perché si glorino dei “poteri” loro conferiti che altri non hanno, ma perché si facciano serenamente umili strumenti della sua misericordia. E la loro umanità, plasmata ogni giorno su quella di Cristo servo, diventi sommessa allusione alla Sua santa umanità, che porta impressi i segni della passione redentrice.

Coraggio, carissimi Oscar e Francesco, è il Signore che vi ha scelti e Lui sa quello che fa.

† Gianfranco Agostino Gardin

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